mercoledì 7 marzo 2018

I'm a Barbie Girl

Mariel Klayton, Barbie Serial Killer 7
"Ciao, vieni a casa mia a giocare?" "OK, mi porto il Ken". I nostri pomeriggi anni '90 iniziavano tutti così. A casa delle amiche si doveva andare munite di Ken, no excuse.
Io avevo, come tutte, un solo Ken, a dir poco imbarazzante. Si chiamava "Ken Romantico Sogno", ma era più uno spiacevole incubo. Ken attualmente ha una mascagna degna di Trump: 25 anni fa aveva i capelli di plastica di due gialli diversi, in un tentativo zoppicante by Mattel di ricreare un visionario effetto 3D. Nello specifico, il mio indossava uno smoking con la giacca bianca glitterata smanicabile, effetto spogliarellista di periferia. Mia mamma, mossa a compassione, mi comprò un vestitino di ricambio: una tuta da pilota di Formula 1 con casco e calzettoni di spugna. Il mio Ken non aveva alternative casual: o Frank Sinatra o Hamilton.
Di Barbie invece ne avevo tantissime, corredate di decine e decine di vestiti e scarpe, pattini, parrucche e tinte scintillanti per capelli, che neanche una drag queen. La mia Barbie faceva una vita semplice, da donna che non deve chiedere mai: gestiva un negozio di fiori, una boutique Benetton, girava in Ferrari o in Vespa, aveva anche un ufficio di non meglio identificata collocazione aziendale, due cavalli, di cui uno rosa sbrillucicante, assolutamente realistico, una casa in campagna, uno chalet in montagna, una piscina attrezzata e una villa fuori città. Credo avesse conti segreti alle Cayman per evitare di pagare le tasse.
Nel 1991 arrivò sotto l'albero di Natale il sogno di ogni bambina: il camper! Peccato che quello originale costasse troppo e i miei mi avessero comprato quello di Tania, una specie di Subaru Baracca verdolino. Tania, cugina brutta e invidiosa di Barbie, era di dimensioni più piccole, quindi le mie Barbie non potevano guidarlo. Risultato? Guidava Skipper, la cugina oca 14enne.
I nostri pomeriggi si aprivano con la fase della scelta dei nomi dei personaggi, che richiedeva dalle 2 alle 3 ore. Nei restanti 40 minuti facevamo succedere la qualunque, ma Ken rivestiva sempre un ruolo marginale: generalmente aspettava Barbie Imprenditrice a casa (o nello chalet), il mio nello specifico con il casco in testa o a torso nudo con il papillon glitterato. Le amiche di Barbie, Midge e Teresa, in genere la aiutavano a gestire le numerose attività commerciali, accettando situazioni lavorative da ispettorato del lavoro. Midge, soprattutto: me la dimenticavo per giorni dentro il negozio di fiori, senza un goccio d'acqua e asfissiata dalle orchidee. Barbie passava solo a riscuotere l'incasso.
Evasioni fiscali, minori alla guida, tresche alla Forrester, furti di vestiti, estorsioni... Non eravamo bambine: eravamo geni della fiction.

domenica 4 febbraio 2018

La vida es un carnaval

Qualche giorno fa mi sono imbattuta in un post della spassosissima pagina Io e la mia vita (vi prego, seguitela, è un fenomeno), intitolato Io e il carnevale. Come un attimo prima del risveglio da un coma, mi è passata davanti la storia tristissima dei miei carnevali, un tripudio di imbarazzo e inadeguatezza.
Partiamo da una considerazione: negli anni '90 o ti vestivi da dama, o non eri nessuno. Ecco, io non mi sono mai potuta vestire da dama. Non so se mia madre covasse una silenziosa lotta al capitalismo, un senso anticonformista di rivalsa sul pensiero dominante... fatto sta che io non ho mai potuto ballare alle feste con il cerchio di plastica sul fondo del vestito.
Il primo vestito di cui ho memoria è quello di Biancaneve. Ero felice perché avevo il caschetto e mi sentivo intimamente vicina alla mia eroina francescana. Peccato per i baffi.
Poi fu la volta di Burda Style, la rivista tedesca di cartamodelli. Ci siamo passati più o meno tutti: "Mamma quest'anno ti fa il vestito dei tuoi sogni!" Forse per gli amici crucchi la parola "Burda" non ha nessun significato particolare, ma a Cagliari il significato è uno ed uno solo: non sei originale, sei un'imitazione a basso costo. Il mio Burda Style 1992 fu un vestito da ballerina spagnola. Ma nessun bambino alle feste lo capiva così mi limitavo a rispondere: "Sono vestita da sposa rossa". L'abito era stato corredato di una maliziosa mascherina che, unita al baffo ombroso, mi conferiva più che altro l'aria di Zorro.
1994: la scuola organizza una festa a tema Alice nel Paese delle Meraviglie. Io e alcune compagne eravamo state insignite del titolo di Margherita del Prato. Mia mamma si offrì di preparare il mio vestito e pensò bene di ingegnare un copricapo formato da un cerchio a cui unire degli enormi petali di carta velina bianca. Mi cadevano sulla faccia e non vedevo nulla. Le mie compagne avrebbero indossato una deliziosa coroncina di margherite, come delle figlie dei fiori in miniatura. L'invidia mi colse e il Signore mi punì (o mi salvò dalla pubblica gogna) con un'influenza fulminante che mi relegò a casa per tutta la settimana.
L'anno dopo ci fu  la svolta: "Amore, il vestito sceglilo tu!" Non avevo bisogno di pensarci, volevo essere Minnie! Andammo a comprare la tipica stoffa rossa a pois neri. Mio padre ci intimò di tornare subito al negozio e di cambarla "perché lui sua figlia vestita da milanista non l'avrebbe fatta uscire". Fui l'unica Minnie della storia bianconera. Al momento del trucco mia mamma, che non distingue un mascara da un rossetto, decise di farmi dei baffi alternativi, oltre a quelli grauitamente forniti dal corredo genetico, agli angoli della bocca. Sembravo una nutria senza naso.
I travestimenti degli anni delle medie li ho volutamente rimossi. L'ultima tragedia fu quella della seconda superiore: festa a tema "Cantanti del momento". Peschiamo i bigliettini e a me spetta Shania Twain, nello specifico agghindata come nel video di "That don't impress me much", di cui potete vedere una diapositiva al lato. Tutte cosucce facilmente reperibili nell'armadio di una teen-ager. Il risultato fu deprimente: pantaloni in velluto maculati prestati da una vicina, maglione nero e una borsetta a tracolla tigrata. Più che una diva di MTV sembravo uscita dal Mio grosso grasso matrimonio Gipsy.
In questi ultimi anni mi sono vestita raramente, fingendo scarso interesse per la ricorrenza. In realtà mi porto dietro anni di disagio sociale da cartamodello. Chiedetevi perché gli psicologi lavorano così tanto.